La prima volta che si parlò di lavoro a distanza fu per opera di Jack Nilles, scienziato americano esperto di trasporti, che nel 1973 introdusse i termini telecommuting e telework. Il primo inteso come la possibilità di “portare il lavoro ai lavoratori piuttosto che i lavoratori
al lavoro” e il secondo inteso come “qualsiasi forma di sostituzione degli spostamenti di lavoro con le tecnologie dell’informazione”.
Dopo anni di discussioni circa la valenza del lavoro a distanza, di recente la decisione di Marissa Mayer, ceo di Yahoo, di limitare a partire da giugno la possibilità dei dipendenti di lavorare da casa, ha subito riacceso il dibattito sulla tesi che chi lavora a distanza sia meno controllabile e produttivo di chi al contrario si reca in ufficio. Il partito degli home worker ha protestato puntando sulla standardizzazione internazionale di codici di autocontrollo, tali da regolare spazi e tempi di lavoro.
Le norme vanno dall’“interdizione” dello spazio di lavoro a parenti e amici all’uso di software che limitano l’utilizzo di siti quali Youtube e Facebook. Ed è previsto anche l’uso
di piattaforme che ricreano ambienti di lavoro virtuali con tanto di rumori di sottofondo. Difficile pensare che uno spazio di lavoro domestico monitorato da webcam e da software specifici possa disincentivare la produttività degli home worker. In tal caso paradossalmente, il monitoraggio sarebbe ancor più severo rispetto alla situazione tradizionale caratterizzata da pause caffè, conversazioni nei corridoi, utilizzo di internet a fini personali.
Attualmente in Italia solo il 3% della forza lavoro, ossia 700.000 persone, è occupata nel telelavoro. Ma vista la crisi economica il numero è destinato a crescere qualora si riesca a superare la barriera piscologica della distanza fisica. Il telelavoro rappresenta un valido
incentivo occupazionale e per le aziende un modo per risparmiare sui costi, quelli per i locali, per la manutenzione dei pc, per le bollette energetiche. A questi effetti si aggiungono i benefici sui bilanci personali dei singoli lavoratori, soprattutto per quelli che utilizzano
l’automobile come mezzo di spostamento quotidiano, e il possibile effetto positivo sulla produttività dovuto al minore stress. Ma per una diffusione su larga scala bisognerà
abbattere una seconda barriera, di natura sociologica. Il più grande inconveniente risiede nel fatto che il telelavoro possa essere interpretato, soprattutto nelle grandi aziende, come un elemento di allontanamento ed emarginazione dei lavoratori. E il pericolo rimane quello di un uso improprio al fine di una selezione in termini di carriera, premiando gli impiegati fisicamente più vicini ai diretti superiori, con mancate promozioni o decurtazioni salariali per
i lavoratori “remoti”.
L’Asati (Associazione dei piccoli azionisti di Telecom Italia), attraverso il suo ufficio studi, ha elaborato un modello per valutare l’impatto macroeconomico del telelavoro sul Pil nazionale. Il modello ha come punto di partenza la riduzione degli spostamenti giornalieri e si basa sui dati Istat circa i tempi e le modalità di spostamento, i cui costi medi complessivi sono stati reperiti dal rapporto sulla mobilità della Agenzia Europea per l’Ambiente.
A questi si aggiunge una stima sul valore del tempo risparmiato in base al 50% del salario netto (nell’ipotesi che un’ora persa per gli spostamenti equivalga al 50% di un’ora lavorativa). Nel caso futurista in cui un terzo della forza lavoro lavorasse da casa, i risultati del modello arriverebbero ad un impatto sul Pil di circa lo 0,8% annuale così ripartito:
2,2 miliardi di risparmio carburante, 3,6 miliardi di riduzione dei danni ambientali e 7,8 miliardi di aumento della produttività dovuta al risparmio di tempo. Da considerare poi
l’impatto dovuto alla riduzione dei costi fissi di aziende e lavoratori con un possibile incremento simultaneo di domanda e offerta di lavoro tale da ridurre i tassi di disoccupazione giovanile e femminile che rimangono tra i più alti d’Europa. |